di Daniele Zinni
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Beautiful but Empty, il primo album dei Kafka on the Shore, è uscito il 18 gennaio scorso. A meno di sei mesi da allora, il gruppo milanese di pirate Mexican porn rock è appena tornato dalla sua prima tournée europea: tredici date per tre settimane tra Londra, Parigi, Bruxelles, Berlino e altre città in Germania.
Ma questi Kafka, chi sono? Stelle nascenti o meteore? Ci diamo all’astronomia e proviamo a capirlo, unendoci al Beautiful but Empty Tour e raccontandovi del gruppo, della sua musica, della sua avventura on the road tra le grandi capitali europee. Leggi anche la prima, seconda, terza, quarta e quinta tappa.
Ci sono cose che vorrei raccontarvi dal vivo, uno a uno, per vedere la faccia che fate.
I Kafka on the Shore hanno concluso le date estere a Colonia, con un concerto organizzato all’ultimo momento, per scrupolo di coscienza più che per necessità: quello che volevano, dal tour, lo hanno già ottenuto – contatti interessanti, polso della situazione, decine di copie del loro album in giro per le capitali europee.
Eppure, appena rimesso piede in Italia, già si vocifera di nuove sorprese. Ricevo delle anticipazioni sull’evento di rientro dei Kafka, al Beer Room di Pontinvrea (SV); li ascolto provare un paio di pezzi che so non essere nel loro repertorio; li vedo fare giri di telefonate, mi accennano a personaggi leggendari… Ma questo non basta ad esaurire preventivamente lo stupore e l’emozione di un momento forse irripetibile. Nulla, in fondo, poteva prepararmi all’improbabile esperienza di vedere i Kafka che accompagnano Elvis Presley.
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A Savona, Antony Elvis è un personaggio conosciutissimo; i Kafka lo hanno voluto tra gli interpreti del loro primo videoclip, Bob Dylan, e stavolta non si sono fatti scappare l’occasione di averlo come guest star – scelta che il pubblico stesso ha accolto con grande entusiasmo.
D’altra parte, com’è ovvio, il loro non è un connubio immediato, e non c’è tempo di collaudarlo più di tanto. Durante il soundcheck emerge qualche differenza di interpretazione dei pezzi, che saranno Can’t Help Falling In Love e Suspicious Minds: la band si rimette giustamente all’idea che ne ha Elvis, il quale in particolare spiega a Vincenzo gli accordi che deve tenere nel finale della seconda canzone, e lo fa mostrandogli il video di una sua performance. Il tastierista dei Kafka, forse per timidezza di fronte al consumato cantante, non rivela di avere ancora dei dubbi, dopo aver ascoltato quella registrazione un po’ domestica, un po’ disturbata.
È di qui che nasce uno dei momenti più surreali dell’intero tour. (Mai quanto la notte a Londra in cui una volpe ha provato a rubare il sacco a pelo di Fred, ma quella è un’altra storia.)
Dopo quasi un’ora e mezza di concerto pieno di energia – di cui i Kafka sembrano non mancare mai – Fred chiama sul palco Elvis: «Prima abbiamo suonato dieci minuti con lui ed eravamo felici come dei bambini». E si vede: i Kafka non riescono a trattenersi dall’esprimere gioia nell’accompagnarlo, ridono, si divertono; lui sfoggia una voce e dei movimenti pelvici che avrebbero meritato un video perché fosse resa loro giustizia.
Suspicious Minds è ormai alle ultime note; col suo marcato accento pugliese, Elvis esorta Vincenzo: «Finale! … Finale!», ma quello rimane lì perplesso, a guardarlo con le mani sulle ginocchia.
«Finale! … Finale!» – Elliot, Daniel e Fred vanno avanti, continuano il giro
«Finale! … Finale!» – il pubblico freme, batte le mani, incita i musicisti
«Finale! … Finale!» – Vincenzo finalmente si riscuote, mette insieme gli ultimi quattro accordi e scioglie la tensione di un pezzo che, già intramontabile, poteva davvero non concludersi mai. Il Beer Room viene giù dagli applausi.
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Il giorno dopo ho fatto la valigia – scoprendo di avere sempre avuto, nascosto sul fondo, un po’ di sarcasmo – e ci siamo separati, io e i Kafka. Loro si sono presi qualche giorno di pausa, prima di tornare a mordere l’asfalto di tutta Italia per il loro tour estivo; io sono a casa e, come si dice nei film, quando leggerete questo messaggio sarò in acqua a fare il morto.
Tuttavia, il tour per me non è affatto finito: sono ancora vittima di imprevedibili accessi di spossatezza, quasi fossi appena riemerso da quindici ore in furgone, e ogni tanto mi ritrovo con la palpebra sinistra che trema, come ha fatto ininterrottamente nelle ultime settimane. Ma a parte questi sintomi misti di stress e mononucleosi, la sensazione di continuità mi deriva da alcune cose che credo di avere imparato, in questa prima esperienza da reporter, e su cui ancora rifletto.
Con voi, in particolare, vorrei condividere una mezza idea sulla scrittura come performance – problema che si ricollega a quello della “voce”, in qualche modo. Il mio sospetto è che sia necessario un atteggiamento “da performer” anche nel produrre quella che in teoria non è arte “da performance” (e mi torna in mente Fontana, che descriveva i gesti meticolosi con cui tagliava le tele, pur non avendolo mai fatto in pubblico). È una prospettiva da cui probabilmente si può guardare a qualunque atto creativo ma che mi sembra emerga con più forza, specialmente nello scrivere, quando ci sono una durata prolungata (tre settimane di tour da coprire, oppure un romanzo che richieda mesi di lavoro), scadenze (intermedie o finali) e la ricerca di coerenza stilistica. (Che poi io non abbia rispettato scadenze e coerenze, e che parlare di arte qui possa suonare pretenzioso, sono questioni a parte.)
Mi sembra che le tentazioni maggiori, nello scrivere un reportage, siano quella di “tirare via” i pezzi – rinunciando al lato narrativo e riducendo tutto ad interviste, per esempio, o buttando giù una cronaca di quello che è successo come se il modo di raccontare non creasse “quello che è successo” a propria volta – e la tentazione del solipsismo – perché, a meno di avere le bombe che cadono fuori dalla finestra, il rumore più forte che senti è sempre quello delle tue sensazioni, ma tu devi scrivere un reportage, non un diario segreto.
I vincoli a cui questi impulsi vorrebbero sfuggire sono appunto tempo e stile: non perché sia possibile scrivere fuori dal tempo o non avere uno stile, ma perché si rischia di adagiarsi sul minimo sindacale senza impegnarsi a sfruttare le opportunità che pure esistono all’interno di questi vincoli. È ansia di scendere da un palcoscenico, quella che porta a voler “essere se stessi”. Di fronte all’orologio ed alla pagina bianca (o piena di appunti incoerenti), ci si sente un po’ come improvvisatori poco esperti, con cinque minuti a disposizione e la pressione di dare una qualche emozione al pubblico: per facilità, si ripiega sulle emozioni che si provano in quel momento, e tendenzialmente non si raggiunge nulla. Lo stato d’animo “giusto”, che evochi il lessico “giusto” e la sintassi “giusta”, lo si trova solo attivamente – recitando, in un certo senso.
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Del resto, qualunque voce usiamo è una voce impostata: appresa con anni di abitudine, limata, tanto più efficace quanto più apparentemente “spontanea”. Ci mancherebbe che si possa fare a meno di questo lavoro quando bisogna raccontare.
Ho l’impressione che invece si dia spesso un taglio essenzialista alla questione del “trovare la propria voce”, come se fosse importante (o possibile) scavare dentro di sé (quale Sé?) e trovare l’unico sguardo sulla realtà che davvero ci appartiene. Mi sembra una prospettiva abbastanza limitata, e molto affezionata alla ricerca di riconoscibilità e gratificazione. Non possiamo forse avere più voci? Non ne disponiamo già?
Mi fermo.
A questo punto, ci vorrebbe qualcosa che dia un senso di chiusura a queste sei puntate di Kafka on the Road.
«Finale! … Finale!» – ma la verità è che i Kafka sono già di nuovo in giro
«Finale! … Finale!» – e in autunno saranno probabilmente di nuovo in Europa
«Finale! … Finale!» – e a dire la verità io stesso tornerò a sentirli stasera a Pescara, perché ultimamente non ho assistito ad abbastanza loro concerti, quindi altro che fine.
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